Come è nata l’idea di Matt e Splatch?

La voglia di trasmettere con la scrittura quello che stavo vivendo è nata da un’esperienza di volontariato ad Haiti. Portai il libro nelle scuole, e fu di ispirazione per qualcuno che intraprese il mio stesso percorso. Ho pensato quindi di scrivere ancora. Con “Matt e Splatch” mi sono cimentato con un genere che amo molto, il fantasy, ma non facile da affrontare. La svolta l’ho trovata proprio in Matteo, il mio primogenito, nato con una distrofia congenita. Le sue battaglie quotidiane legate alla scuola, alla fisioterapia, alle barriere architettoniche, mi hanno acceso una lampadina: raccontare tutte queste sfide come un’avventura, un racconto per ragazzi. In “Matt e Splatch” ho voluto anche trasmettere la naturalezza con cui si può vivere la diversità: Matteo non mi ha mai detto “perché io sono così? perché io non posso camminare?”.

La stessa situazione l’ho vissuta quando abbiamo adottato David, da Haiti. Ero pronto a qualche domanda da parte delle mie figlie sul colore della sua pelle. Invece non mi hanno mai chiesto “perché è scuro?”, per loro era un fratello e basta. Non c’era pregiudizio.

 

Raccontaci degli incontri con i ragazzi delle scuole.

Sono andati molto bene, ho trovato grande entusiasmo nonostante la distanza imposta dalla pandemia. Mi hanno chiesto, appena si potrà, di andare a trovarli. La loro curiosità si è concentrata sulla diversità. Matt è un eroe anche se non lo sembra. È il più forte di tutti, nonostante i muscoli deboli e spesso mi hanno chiesto perché ho scelto proprio lui come protagonista. È stata l’opportunità per toccare il tema del bullismo, perché escludere qualcuno per via della carrozzina o del colore della pelle è una forma di violenza, di bullismo appunto.

Una delle domande più belle che mi hanno fatto è stata: come possiamo comportarci con un compagno che ha una disabilità motoria? A tutti rispondo: come voleva essere accolto il mio Matteo, concentrandosi sulle sue abilità e non su quello che non poteva fare. I compagni lo anticipavano, senza farlo sentire inadeguato perché da solo ad esempio non poteva prendere l’astuccio.

Gli insegnanti hanno un ruolo molto importante in questo processo. Dire “bisogna fare così” non serve, è invece molto più utile vivere la diversità come normalità.

Un’altra bellissima cosa che sono contento di raccontare è quando i ragazzi mi dicono che vorrebbero fare i volontari, ma si ritengono troppo piccoli. Sottolineo loro che per alcune cose non sono affatto piccoli. Li invito a partire dalla famiglia, dai vicini e poi quando saranno più grandi potranno fare altre scelte. Il volontariato non è circoscritto a un periodo della vita.

 

Che bambino eri? 

Ero un bambino curioso e questo mi ha portato a rispondere a tante domande. Più esperienze fai più ti arricchisci, più cresci. Non si smette mai di imparare.

 

(cs)